Non per colpa sua, “Persona” viene ritenuto un capolavoro, non solo di Bergman, ma della cinematografia mondiale di tutti i tempi. Sul web volano stelline, voti alti, giudizi orgasmici tipo “capolavoro”, “poesia visiva”, “punto massimo del cinema” o “cult”.
Partiamo dalla trama: rapporto tra un’infermiera e un’attrice che ha smesso di parlare. Più una serie di fotogrammi messi lì a caso a inizio, metà e fine film (sono messi a caso, critici, per favore non trovate significati dove non ci sono, aperta e chiusa parentesi).
Veniamo a noi: delirante il giusto, vagamente inquietante, più silenzi, spazi, inquadrature “strane” (nell’accezione positiva del termine). Un mezzo delirio insomma, e diciamo mezzo perché la prima parte (fotogrammi a casaccio a parte) è leggermente pesantuccia e normale, utilizza una grammatica classica.
Innovativo e rivoluzionario? Sì. Affascinante, grazie anche al bianco e nero? Sì. Capolavoro? No, non scherziamo.
Due note a margine. La prima: “Persona” dimostra che il cinema d’autore può durare meno di una partita di calcio. Bene, perbacco. La seconda: abbiamo finalmente capito da dove arrivano diverse idee-feticcio di David Lynch, ebbene sì, proprio da questo film del 1966.
Persona (1966) – di Ingmar Bergman